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Storia della mia calvizie

Storia della mia calvizie

Storia della mia calvizie è un romanzo di Marek van der Jagt del 2003.

Marek è il protagonista del suo unico libro. Narrando in prima persona decide di raccontare la storia della sua calvizie.  Come spesso accade, parte dalla sua adolescenza. Dal momento in cui la vita ha iniziato a diventare veramente sua. Marek vive a Vienna insieme ad una famiglia piuttosto particolare. Ha un padre distratto ed indifferente, dedito solo al lavoro. La madre non è certo molto meglio. E’ una donna eccentrica, esibizionista, seduttrice distratta. Marek ha anche due fratelli più grandi, entrambi destinati al successo.

Marek in quegli anni decide che nella vita vuole dedicarsi alla poesia scrivendo versi alla Paul Celan e, soprattutto, all’amour fou. Purtroppo deve però fare i conti con due grandi batoste che la vita decide di riservagli: non solo non è apprezzato come poeta, ma deve anche fare i conti con un pene estremamente ridicolo e di dimensioni insignificanti.

Marek affronta così un periodo nero, carico di frustrazione e disagio. Ma non si arrende e non rinuncia a fare le sue esperienze e le prova tutte per risolvere il suo “problema”.  Dopo aver vagliato la chirurgia plastica, decide di provare un mix di cure omeopatiche che avranno, però, l’unico effetto di fargli perdere prematuramente i capelli.

Raccontare la storia della propria calvizie sembra in effetti ben poca cosa. Ma anche le piccole storie hanno la loro importanza.

Cresciuto nel lusso di una grande casa viennese, vuota e solitaria, Marek  trova rifugio in universi paralleli e mondi onirici. La sua ossessione è la ricerca dell’amour fou. O, forse, la sua ossessione è la ricerca e basta. Intesa come atto verso un benessere psicofisico a lungo desiderato.

Storia della mia calvizie, alcune citazioni dal libro

 “Se la vita era un lavoro, volevo licenziarmi. Solo che non trovavo l’ufficio incaricato di accogliere la mia domanda.”
“In seguito ho imparato e capito che siamo noi ad attribuire il significato alle parole, i suoni in sé sono innocenti. Una lingua che non si comprende assai di rado fa male. Forse nasce da qui l’idea balzana che le lingue straniere si imparano a letto. Se lo vogliamo siamo capaci di attribuire più significato ad un rantolo che a un sonetto di Shakespeare. Adesso penso che i miei sforzi tendessero a un solo obiettivo: far si che qualcuno scoprisse qualcosa nel mio rantolo che io stesso, nonostante il mio impegno, non avevo mai visto”

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