Diario di scuola
Diario di scuola è un romanzo autobiografico di Daniel Pennac pubblicato in italia nel 2008 (in Francia nel 2007). Si tratta di un romanzo caratterizzato per uno sguardo acuto ed un filo sarcastico sul al mondo della scuola, degli insegnanti e degli alunni che la frequentano. Soprattutto i più difficili. Se di Pennac sei interessato anche ad Abbaiare stanca, leggi QUI.
Diario di scuola, la trama del libro
In un’alternanza di sequenze narrative ed espositive, viene affrontato il grande tema della scuola dal punto di vista degli alunni. Se le sequenze narrative sono dinamiche e fanno procedere la storia, le sequenze espositive sono statiche e contengono invece informazioni utili ad arricchire la narrazione.
Parlando di ‟alunni” si resta forse troppo sul vago: qui è in gioco il punto di vista degli ‟sfaticati”, dei ‟fannulloni”, degli ‟scavezzacollo”, dei ‟cattivi soggetti”, insomma di quelli che vanno male a scuola. Pennac, ex somaro lui stesso, studia questa figura popolare e ampiamente diffusa dandogli nobiltà, restituendogli anche il peso d’angoscia e di dolore che gli appartiene.
Il libro mescola ricordi autobiografici e riflessioni sulla pedagogia, sulle universali disfunzioni dell’istituto scolastico, sul ruolo dei genitori e della famiglia, sulla devastazione introdotta dal giovanilismo, sul ruolo della televisione e di tutte le declinazioni dei media contemporanei.
E da questo rovistare nel ‟mal di scuola” che attraversa con vitalissima continuità i vagabondaggi narrativi di Pennac vediamo anche spuntare una non mai sedata sete di sapere e d’imparare che contrariamente ai più triti luoghi comuni, anima – secondo Pennac – i giovani di oggi come quelli di ieri. Con la solita verve, l’autore della saga dei Malaussène movimenta riflessioni e affondi teorici con episodi buffi o toccanti, e colloca la nozione di amore, così ferocemente avversata, al centro della relazione pedagogica.
Diario di scuola, frasi e citazioni dal libro
“Diario di scuola” è un romanzo autobiografico, nel quale Pennac narra la storia della sua vita, inserendo aneddoti, argomentazioni brevi, e riflessioni pedagogiche. Ci regala frasi bellissime, ricche di spunti per riflettere sul mondo della scuola, ma non solo!
Sì, è la prerogativa dei somari, raccontarsi ininterrottamente la storia della loro somaraggine: faccio schifo, non ce la farò mai, non vale neanche la pena provarci, tanto lo so che vado male, ve l’avevo detto, la scuola non fa per me… La scuola appare loro un club molto esclusivo di cui si vietano da soli l’accesso. Con l’aiuto di alcuni professori, a volte.
A dire il vero tutte provano un po’ di vergogna, e tutte sono preoccupate per il futuro del figlio. “Ma che cosa diventerà?” La maggior parte di loro si fa dell’avvenire una rappresentazione che è una proiezione del presente sullo schermo angosciante del futuro. Il futuro come una parete dove sono proiettate le immagini smisuratamente ingrandite di un presente senza speranza, ecco la grande paura delle madri!
Statisticamente tutto si spiega, personalmente tutto si complica.
Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che prova la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all’insieme. Siccome il piacere dell’armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica. Il problema è che vogliono farci credere che nel mondo contino solo i primi violini.
Insomma, diventiamo. Ma non cambiamo granché. Ci arrangiamo con quello che siamo.
Il sapere è l’unica soluzione: soluzione allo stato di schiavitù in cui ci terrebbe l’ignoranza e consolazione unica alla nostra ontologica solitudine.